Cucina scritta e cucina orale
di Massimo Montanari

La contrapposizione fra diversi tipi di società e di cucina è stata oggetto di riflessione da parte di vari studiosi fra cui il sociologo inglese James Goody. A parere di questi, solo le società complesse, fortemente gerarchizzate e statalizzate (quelle che si sono unicamente sviluppate in Europa e in Asia) sono state in grado di produrre una cucina professionale, nettamente distinta da quella domestica.
Al contrario, la maggior pane delle società tribali o debolmente statalizzate dell’Africa non hanno conosciuto che la cucina preparata dalle donne all’interno del contesto familiare. Goody aggiunge che solo nei paesi di lunga tradizione scritta ha potuto svi1upparsi un genere di letteratura tecnica, il trattato di culinaria che ha permesso di tesaurizzare le ricette di cucina. E con la costruzione di una memoria scritta della cucina, che rende possibile l’accrescimento cumulativo delle conoscenze, si realizza un vero e proprio sapere costituito, ciò che non si riscontra, almeno in forma materiale e tangibile, nelle società di tradizione orale. La cucina scritta consente di codificare, in un repertorio stabilito e riconosciuto, le pratiche e le tecniche elaborate in una determinata società. La cucina orale teoricamente è destinata, nel lungo periodo, a non lasciare tracce di sé.
Questo destino sembrerebbe opporre non solo le società di tradizione scritta a quelle di tradizione orale, bensì anche i diversi gruppi sociali all’interno delle medesime società: è chiaro, infatti, che anche le società di tradizione scritta, come quelle europee, per lungo tempo hanno tramandato solo o soprattutto testi prodotti da e per le élites sociali, le aristocrazie di corte e gli alti ceti cittadini.Le classi subalterne, che non affidavano la propria esperienza allo scritto bensì alla trasmissione orale, apparentemente non ci hanno lasciato nulla. Per esempio, che cosa possiamo sapere della cultura alimentare contadina del Medioevo?

Riconoscere il ruolo specifico della società contadina nelle strutture della produzione alimentare, nelle modalità e nei contrasti del percorso distributivo, nei valori simbolici attribuiti a comportamenti e consumi non è semplice ma tutto sommato emerge da sé dalla documentazione. Più arduo è accedere alla sfera della cucina, dei modi di preparazione, del gusto alimentare (che non possiamo ritenere esclusivo delle classi superiori).
Se diamo per scontato che la cultura scritta sia stata prodotta dalle classi dominanti per le classi dominanti, ed essendo (ovviamente) la fonte orale preclusa allo storico che non si occupi di contemporaneità, ne consegue che solo la cucina dei potenti ci è stata, magari in modo discontinuo, tramandata dalle fonti documentarie e letterarie, mentre sulla cucina povera siamo destinati a tacere,
o tutt’al più a formulare ipotesi interpolando frammenti sparsi di realtà storica. Ma una lettura più smaliziata delle fonti può suggerire piste diverse. Anche se i testi scritti non sono mai espressione diretta di una cultura popolare, essi tuttavia la rappresentano, con fedeltà assai maggiore di quanto potremmo aspettarci. Nei libri di ricette medievali, e in quelli di età rinascimentale che ne costituiscono la logica continuazione,
si percepisce un intreccio continuo fra la cucina di élite — quella esplicitamente rappresentata — e un tipo diverso di cucina in qualche modo riconducibile alla cultura popolare.
La civiltà della scrittura può dunque consentire di salvare anche qualcosa della cultura orale, che, pur non esprimendosi direttamente nello scritto, vi è stata riflessa in modo indiretto ma non per questo meno visibile.

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