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Pensioni

LA PENSIONE? A 65 ANNI PER TUTTI

di Alessandro Rosina 13.01.2009

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Gli italiani sono uno dei popoli più longevi del vecchio continente. Paradossalmente, però, siamo anche un paese con un'età di pensionamento tra le più basse. E che meno incentiva la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Esistono dunque ottimi motivi per portare l'età pensionabile, per tutti e subito, a 65 anni, agganciandola poi davvero all'evoluzione dell'aspettativa di vita. La riduzione di spesa ottenuta consentirebbe di alleviare la pressione fiscale e di finanziare nuovi strumenti di protezione sociale. Esigenze ancor più importanti in periodo di crisi.

Gli italiani sono uno dei popoli più longevi del vecchio continente. Secondo le stime Istat più recenti l’aspettativa di vita maschile è vicina ai 78,5 anni per gli uomini e a 84 per le donne. Difficile trovare un altro paese europeo nel quale si vive così a lungo. Si tratta complessivamente di almeno un anno in più rispetto alla media dell'Unione a 15 e oltre due anni in più rispetto alla Unione a 27.

IL PAESE CON VITA PIÙ LUNGA

Chi poi arriva a 60 anni, praticamente tutti, si trova davanti ancora oltre 22 anni per gli uomini e 26,5 per le donne. Ma è questa una sottostima di quanto vivranno effettivamente gli attuali sessantenni, visto che fortunatamente lo scenario è in continuo miglioramento e sinora per ogni anno vissuto si sono aggiunti ulteriori tre mesi.
Ma le buone notizie non finiscono qui. Il nostro paese è tra quelli nei quali maggiore è la durata di esistenza in buona salute. Secondo i dati comparativi presentati nell’Eurostat statistical yearbook 2008 (pag. 52), il valore dell’Healthy Life Years (Hly) tocca le punte più basse in Ungheria, Finlandia e Portogallo (circa 60 anni), e le più alte in Italia (oltre 70 anni). Inoltre, il nostro paese risulta essere quello nel quale chi arriva ai 65 anni può aspettarsi di vivere più a lungo in condizioni di buona salute (circa 12 anni).
Le elevate performance italiane nel campo della longevità in combinazione con le persistentemente basse performance nel fare figli, stanno alla base dell’altro ben noto record che ci caratterizza, vale a dire l’invecchiamento della popolazione. Siamo infatti attualmente l’unico paese in Europa con quota di over 65 arrivata al 20 per cento e quota di under 25 scesa sotto il 25 per cento.

PER UNA MAGGIORE EQUITÀ GENERAZIONALE

Di fronte a questi primati ci si può allora legittimamente chiedere come mai siamo anche uno dei paesi con più bassa età di pensionamento. Secondo i dati Eurostat, l’età mediana effettiva di pensionamento è da noi di oltre due anni più bassa rispetto alla media Ue-25. (1) Quindi viviamo in media due anni in più e andiamo in pensione due anni prima. Come mai? Perché siamo più furbi degli altri? Sì, ma a esserlo sono solo le generazioni più anziane, perché i frutti di questo ingiustificato privilegio li raccolgono loro, mentre i costi gravano sui lavoratori più giovani, come in varie occasioni è stato sottolineato su questo sito. Siamo del resto, da tempo, il paese con spesa sociale più squilibrata sul versante delle pensioni. Come ci ricorda l’Ocse, nel profilo tecnico che riguarda l’Italia, spendiamo per pensioni circa il 14 per cento del Pil, contro meno dell’8 per cento del complesso del mondo sviluppato. Ciò implica un carico fiscale particolarmente oneroso per i lavoratori italiani per mantenere l’attuale sistema, salvo poi questi trovarsi, nel caso di disoccupazione, condizione usuale per i precari, con ammortizzatori sociali tra i più carenti.
Difficile in queste condizioni che i giovani possano pensare in modo previdente al proprio futuro integrando il poco che avranno dal sistema pubblico. Un allarme lanciato anche dal presidente della Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensioni, nella sua relazione presentata nel 2008 e riferita al 2007, quindi in periodo antecedente la crisi finanziaria ed economica attuale. Si trova testualmente affermata la necessità di “rilanciare in modo effettivo e consistente la partecipazione delle classi più giovani (…). Il problema della partecipazione giovanile (…) si ricollega all’incertezza sulla condizione professionale, alla diffusione di forme di lavoro precario, alla connessa instabilità e insufficienza di reddito. È inevitabile che tutto ciò si ripercuota sull’effettiva capacità di accantonare risparmio per finalità previdenziali”. Un problema serio per il benessere futuro, dato che “il passare del tempo rende la situazione delle giovani generazioni sempre più problematica”. Ma è altresì importante rendere i prodotti del sistema privato più accessibili, sicuri e appetibili.
Esistono quindi, nel complesso, ottimi motivi per portare l’età pensionabile, per tutti e subito, a 65 anni, agganciandola poi davvero ed effettivamente all’evoluzione dell’aspettativa di vita. La riduzione di spesa che si ottiene consentirebbe in parte di alleviare la pressione fiscale e in parte di finanziare nuovi strumenti di protezione sociale. Esigenze riconosciute ancor più importanti in periodo di crisi.

PER UNA MAGGIORE EQUITÀ DI GENERE

Ben venga inoltre anche l’equiparazione tra donne e uomini, come imposto del resto dalla Corte di giustizia europea, la quale il 13 novembre 2008 ha condannato il nostro paese per le disparità di trattamento di genere. Un tema da tempo molto discusso e che si è riacceso nell’ultimo mese.
Il pensionamento femminile più precoce trova storicamente giustificazione nel maggior carico sulle donne degli impegni familiari e di cura all’interno della rete di welfare informale. Ma la presenza di un diverso trattamento nell’età pensionabile rischia proprio di legittimare e consolidare lo stereotipo, sempre più insostenibile, che sia la donna a doversi prendere principalmente e quasi esclusivamente cura dei soggetti deboli della rete familiare. Il fissare stessi criteri di pensionamento dovrebbe costituire invece una sollecitazione a riequilibrare i carichi familiari di genere, richiamando a un impegno maggiore in ambito domestico e di cura gli uomini italiani.
Non va dimenticato che, anche per tali motivi, l’occupazione femminile over 55 è una delle più basse in Europa: è attiva meno di una donna su quattro, sia nel Sud che nel Nord Italia, mentre la media europea è oltre una su tre. E la mobilitazione di tale risorsa è considerata una delle risposte più importanti all’invecchiamento della popolazione. Il rapporto tra anziani inattivi e persone occupate ha da noi già superato quota 50 per cento, è invece circa il 40 per cento in Francia e il 35 per cento in Svezia, paesi con longevità paragonabile alla nostra. Siamo quindi uno dei paesi che invecchiano di più, ma, paradossalmente, anche tra quelli che meno incentivano la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Ciò nonostante il fatto che, secondo i dati Istat, un’ampia parte delle donne che si trovano fuori dal mercato del lavoro a causa del carico degli impegni familiari dichiara di voler lavorare, potendo eventualmente contare su una flessibilità di orario e sul part-time. Sono allora questi strumenti e i servizi che consentono in generale la conciliazione per donne e uomini, come giustamente ribadito da Chiara Saraceno, che vanno potenziati, più che difesa la disparità di età nell’entrata in pensione.
Per ridurre gli squilibri di genere e generazionali, fissare subito per tutti un’età di pensionamento a 65 anni è condizione sicuramente non sufficiente, ma necessaria sì.

(1) Eurostat, “Transition of women and men from work to retirement”, Statistics in focus 97/2007.


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